Vorrei
prendere in considerazione, per questo post settimanale, la prefazione a Se questo è un uomo di Primo Levi. Mi è capitato di riprendere questo libro non
solo perché è passato da poco il giorno della memoria (27 gennaio), giorno in cui si commemorano le vittime del nazismo,
dell'Olocausto e di coloro che sono stati perseguitati, ma anche perché ho
un'allieva che sta preparando un lavoro audiovisivo su questo tema e per
prepararlo stiamo rileggendo alcuni passaggi.
Trovo la prefazione estremamente sistematico.
Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, causa la crescente scarsità di mano d’opera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.
Il termine "fortuna" è molto utilizzato nel testo di Levi. Con questo esordio è come se
l'autore tenesse sottotono ogni definizione di poetica, lavorando per
sottrazione (si noti, come qui sotto riportato, il "non aggiunge nulla") e con un certo gusto di ironia (“quale persona deportata
dovrebbe sentirsi fortunato?”).
Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi
di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni
aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di
ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più
questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si
manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un
sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso
diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena,
sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue
conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze
ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da
tutti come un sinistro segnale di pericolo.
In questo suo lavoro e in base alla sua poetica, pertanto, i fatti atroci non vengono esplicitamente resi, anche se il loro rumore si sente, e non aggiungono molto a quanto "generalmente" si sa sull'argomento. L'obiettivo non è quello di aggiungere un'altra accusa, bensì è molto più "atroce": documentare la rigorosa coerenza e il sistema di pensiero dell'animo umano che, in un perfetto sillogismo dettato da un'infezione, porta l'uomo a diventare non-uomo.
Seguendo una certa psicologia razionale, Levi presenta il
suo punto di vista che va oltre alla morale, per entrare nel mondo dell’etica
in cui si deve seguire un certo percorso, se si vuole raggiungere una certa
meta. Vuole rendere conto di quanto è successo, perché vuole mostrare l'atroce razionalità e sistematicità dei nazisti.
Tutto è partito da un semplice sillogismo, "Ogni straniero è nemico", che poi si è diramato come un'infezione in tutto il sistema ... fino a diventare un sistema di pensiero. Comprendete l'attualità di questo passaggio?
Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del
libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin
dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri”
partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere
di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri
bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno;
in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere
frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per
ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano
ed è posteriore.
Lo scrivere è testimonianza sofferta: non c’è nulla da fare,
si scrive perché ci si deve liberare da un tormento interiore. La
documentazione, il mostrare gli effetti della xenofobia, il meditare sul
comportamento dell’uomo sono strumenti per liberarsi dall'ossessione.
E si badi bene, non si scrive mai a se stessi, ma sempre verso un tu. Un tu che, in una maniera o nell'altra, ci rende e ci permette di rimanere umani.
Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è
inventato.
Con una nota di ironia, si chiude la prefazione. Non è un
libro facile, perché in parte incomprensibile. Il problema non risiede nella
tecnica narrativa o nel rimaneggiamento che l’autore ha attuato nello
strutturare il testo, bensì nel comprendere un qualcosa che è stato, nella sua atroce
razionalità, una contraddizione umana.
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